Giuseppe Lanzi

Giuseppe Lanzi

Migrazioni: EFFETTO SERRA EFFETTO GUERRA

“C’è un fantasma che si aggira per l’Europa: sono i migranti ambientali, coloro che sfuggono dalle conseguenze dei mutamenti climatici come desertificazioni, alluvioni, salinizzazione delle terre, siccità. Secondo l’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni la probabilità oggi di essere sfollati per effetto dei cambiamenti climatici è cresciuta del 60% negli ultimi 40 anni! Mentre il 61% delle migrazioni interne avviene nei paesi a basso reddito.”

 

Apriva in questo modo, nel novembre 2016 un articolo su “Huffington Post” dell’allora presidente nazionale di Legambiente.
Per chi si occupa da molti anni di ambiente, il tema dei migranti climatici, internazionali o interni agli stati, non è una novità come non è nuovo che siano proprio le associazioni ambientaliste a tentare di portare il tema all’attenzione della stampa e del grande pubblico, per sollecitare i pubblici decisori a fare delle scelte coerenti con le emergenze che sempre più ci troveremo ad affrontare. Nonostante ormai quanto succede sia visibile a tutti, e nonostante le conseguenze le vediamo a Lampedusa come nella piazza della nostra città, a COP 22 – la conferenza delle Nazioni Unite sul clima, tenutasi in Marocco ma quasi ignorata dalla “grande” stampa italiana – non ha fatto alcun riferimento a questo enorme fenomeno sociale.

Sono milioni di esseri umani che fuggono dalla desertificazione, dalle guerre per le risorse idriche, da catastrofi ambientali non più emergenze, ma nuove “normalità” indotte dall’insensato comportamento umano che ha reso il cambiamento climatico un accelleratore ed intensificatore di fenomeni naturali violenti, che non toccano solo i paesi poveri – basta guardare alle recenti cronache Liguri o Piemontesi – ma che in questi paesi creano dei veri e propri esodi biblici, con i quali saremo costretti a fare i conti anche nelle nostre strade.

A differenza dei “rifugiati politici”, quelli “ambientali” non possono essere inseriti in programmi di protezione internazionale e si continua a considerarli “migranti economici” e con questa scusa li si rimpatria.
Molto spesso si tratta di migrazioni interne e per questo il cosiddetto mondo “evoluto”, preferisce fare lo struzzo e oltre a non intervenire, non si struttura nemmeno per possibili, probabili, peggioramenti.
Non possiamo non tenere presente che i fenomeni climatici non conoscono frontiere o “muri”… ormai nessuno (se non forse i consiglieri del Presidente Donald Trump) ha il coraggio di negare il carattere antropico di questi fenomeni – è immaginabile che anche aree con una gloriosa storia economica, artistica e culturale, possano diventare ostili alla specie umana e costringere intere popolazioni a lasciare le proprie terre…

Nel solo 2015, – continua Muroni – secondo l’internal Displacement Monitoring Centre su 27.8 milioni di sfollati interni agli Stati, 8.6 milionisono fuggiti da guerre e violenze, 19.2 milioni da disastri naturali improvvisi e violenti come inondazioni e uragani. Poi ci sono ancora 13 milioni di profughi
interni registrati dall’Unhcr, che probabilmente fuggono da fenomeni di lenta trasformazione del proprio territorio provocate dai cambiamenti climatici.

In un evento di qualche tempo fa organizzato da Legambiente con la Pontificia Università Lateranense dal titolo “The path: la sfida delle migrazioni”, anche per il mio essere imprenditore mi ha colpito l’intervento del direttore scientifico del Kyoto Club, Gianni Silvestrini.

Silvestrini ha sottolineato come in questa battaglia sia fondamentale il ruolo del mondo delle imprese: “il cambiamento del clima è legato all’incremento delle emissioni, in particolare della anidride carbonica, e le imprese hanno un ruolo positivo perché in questo momento una pattuglia di punta importante, sta guidando i cambiamenti puntando verso fonti rinnovabili, efficienza energetica, mobilità sostenibile, altre resistono. Quelle legate al mondo dei fossili, resistono; in particolare quelle del carbone e del petrolio. Noi sappiamo che 2/3 delle risorse di carbone, petrolio e metano non potranno essere utilizzate in uno scenario “due gradi” [cioè se non si vuoleraggiungere il punto di non ritorno dell’aumento di due gradi della temperatura terrestre (NdR)] bisogna quindi governare questa transizione e queste aziende devono capire che devono diversificare le proprie strategie, cosa che non sempre fanno! Anzi raramente fanno”

Allo stesso evento, Giuseppe Notarstefano, vicepresidente di Azione Cattolica, ha sottolineato come il cambiamento climatico necessiti formazione personale ed impegno civico anche sulla scia della Laudato si “dove il Papa ci ha incoraggiato a impegnarci quotidianamente – quindi gli stili di vita – ma a farlo insieme nella dimensione civica dell’impegno ecologico”.
Ormai è quasi diventato di moda citare Papa Francesco e la sua enciclica “ecologica”, ma a volte viene da chiedersi se sia stata letta e meditata…
Nel 2007, ho curato il progetto di sostenibilità di Agorà, un evento che portò a Loreto mezzo milione di giovani ad incontrare Papa Benedetto XVI; contemporaneamente, si celebrava la Giornata Nazionale per la Salvaguardia del Creato… quella definizione mi è sempre stata stretta. Ma la Chiesa italiana non è cristallizzata sulle proprie posizioni ed oggi quella celebrazione ha cambiato nome: ora si celebra la CUSTODIA del Creato, cambiando completamente il paradigma sottostante. Essere custodi di qualcosa, presuppone il non esserne proprietari; ragionare con questo presupposto relativizza molti concetti, compresi quelli di cui trattiamo stasera: cittadino, straniero, frontiera, nemico… concetto quest’ultimo, che sempre più stesso vediamo applicato al clima che si manifesta con fenomeni estremi.

Il legame tra migranti e riscaldamento globale è ormai ampiamente accertato in letteratura scientifica; nel Febbraio 2019 è uscito uno studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto sull’Inquinamento Atmosferico (Cnr-Iia): “Linear and nonlinear influences of climatic changes on migration flows: a case study for the ‘Mediterranean bridge’”.

Lo studio focalizza quantitativamente l’influenza dei cambiamenti climatici sulle migrazioni dalla fascia africana del Sahel all’Italia, che rappresenta il 90% degli ingressi di migranti nel nostro Paese, come spiega Antonello Pasini, ricercatore del Cnr-Iia e autore dello studio svolto in collaborazione con Stefano Amendola, dottorando in fisica dell’Università di Roma Tre.

Analizzando il periodo 1995-2009, prima quindi delle Primavere Arabe e della Crisi Siriana, hanno analizzato le incidenze climatiche. «Nello specifico – argomenta Pasini – abbiamo utilizzato un semplice modello lineare e un altro più sofisticato di intelligenza artificiale, un sistema a rete neurale recentemente sviluppato dal nostro gruppo, in grado di evidenziare cambiamenti non graduali ed effetti del superamento di determinate soglie nelle variabili meteo-climatiche. Con il modello a rete neurale siamo stati in grado di spiegare quasi l’80% della variabilità nelle correnti migratorie verso l’Italia, prendendo in considerazione i soli dati meteo-climatici, per causa diretta e per influenza sull’ammontare dei raccolti annuali».
Che l’agricoltura rappresentasse un collegamento tra cambiamenti climatici e migrazioni era consapevolezza comune anche in relazione alle grandi migrazioni di massa dell’800 in Italia; in questo caso però, lo dimostra lo studio: scrive Pasini: «Raccolti poveri ed eventuali carestie, congiuntamente alle ondate di calore durante la stagione di crescita, amplificano il fenomeno migratorio». Sembra essere la temperatura il fattore predominante che ha indotto questi movimenti migratori, al punto da far pensare che esistano delle soglie di tolleranza termica, umana ed animale, superate le quali sia misurabile un incremento dei flussi.
«Oggi sappiamo che i paesi africani sono molto vicini a queste soglie. I nostri risultati modellistici rappresentano ovviamente solo un primo passo verso studi più ampi, che possano vedere la collaborazione con scienziati sociali per una valutazione più completa di tutti i fattori che influenzano le migrazioni. Nonostante ciò – conclude Pasini – ritengo che già ora le evidenze presentate in questo studio vadano seriamente prese in considerazione dal mondo della politica, affinché anche in Africa si adottino strategie doppiamente vincenti, come il recupero di terreni degradati e desertificati, che possano condurre a mitigare il riscaldamento globale e, nel contempo, a creare situazioni che prevengano il triste fenomeno delle migrazioni forzate».

La politica non può chiamarsi fuori né arrampicarsi sugli specchi come ha fatto il Presidente del Consiglio Conte in occasione – il 29 marzo 2019 – della consegna della Lampada della Pace al Re di Giordania. Durante l’incontro tra Abdullah II, Merkel e Conte, alla domanda di un giovane che gli chiedeva dello Jus Soli, questi girava intorno al problema parlando di una (comunque auspicabile) nuova modalità di cooperazione con i Paesi di Provenienza. Ammesso anche che fosse legale e conforme alle norme internazionali, ammesso e non concesso che la chiusura sia avvenuta effettivamente, la chiusura dei porti all’italiana o la costruzioni di muri alla statunitense o alla ungherese, non potranno mai essere la soluzione. La ragione ci spiega che i muri non sono la soluzione e Berlino – ma anche Gorizia – ci rammenta che fine facciano i muri. Anche io per diversi anni sono stato un migrante economico tra Francia e Germania, dove ho potuto sperimentare anche le difficoltà del “diverso”. Poi mi sono trasformato in cooperatore internazionale, seguendo progetti di cooperazione allo sviluppo nei Balcani, in America Latina ed in Africa.
Ho potuto quindi vedere i flussi migratori da Est a Ovest che arrivavano in Germania, le migrazioni bibliche da Sud a Nord verso gli Stati Uniti d’America e i flussi inversi dal centrafrica alla Repubblica Sudafricana.
Verrebbe da dire “niente di nuovo sotto il sole”… tanto più che le statistiche indicano chiaramente che i giovani italiani hanno ricominciato ad emigrare.
Dicevamo “migranti”; oggi va quasi di moda aggiungere degli aggettivi… se hai quello giusto, riesci ad ottenere i documenti di soggiorno e puoi provare a costruirti una vita; se sei “solo” “migrante economico”, è quasi impossibile integrarsi, entri nel mondo oscuro dove, se hai fortuna trovi qualcuno che ti sfrutta con lavori e paghe da servi della gleba, se ti va male, sei carne da macello per la criminalità organizzata (o anche fai da te che può essere altrettanto feroce!).

Inoltre, tra le tante possibilità esistenti per ottenere lo status di “rifugiato”, non è ancora prevista quella di “rifugiato ambientale” o “rifugiato climatico”. Eppure, sempre più spesso sentiamo parlare di riscaldamento globale, di trasformazioni del clima, di innalzamento del livello dei mari… ma quali sono le conseguenze di queste trasformazioni? Difficilmente riusciamo a vedere tra queste, lo spostamento forzato di intere popolazioni che si ritrovano ad abitare in territori, non più adatti alla specie umana. I dati non lasciano dubbi: oltre il 44% della popolazione mondiale vive entro 150 km dalle coste in
aree che sempre più spesso, saranno colpite da fenomeni climatici estremi.
L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (International Organization for Migration – IOM) propone questa definizione per i migranti ambientali:

“persone o gruppi di persone che, per motivi imperativi di cambiamenti improvvisi o progressivi per l’ambiente che influenzano negativamente la loro vita o le condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali o scelgono di farlo, in maniera temporanea o definitiva, e che si spostano sia all’interno del loro paese sia uscendo dai confini del proprio paese”.

Stante questa definizione, sarebbe più proprio parlare di rifugiati ambientali. Ma tale definizione non è ancora unanimemente accettata e anche sulle cifre vi sono dati discordanti. Oggi abbiamo una chiara definizione di rifugiato politico o di migrante economico; su quelle si basa la possibilità di essere accolti o meno in paesi diversi dal proprio, con un minimo di riconoscimento o tutele; è fondamentale che si arrivi ad avere una definizione condivisa anche per i rifugiati ambientali.
Intere aree del Medio Oriente e del Nord Africa – ma il fenomeno coinvolge anche alcune regioni del Sud Italia – stanno subendo fenomeni di desertificazione diventando sempre più inabitabili per l’uomo. L’Europa, già oggi meta di flussi di rifugiati che scappano da guerre e persecuzioni, dovrà far fronte anche all’aumento importante del numero di rifugiati climatici che cercheranno riparo nei suoi territori… fino a che non toccherà anche a lei!
Nel film catastrofista The Day After Tomorrow (L’alba del giorno dopo) c’è una scena che, pur trattandosi di fiction, mi ha colpito molto: il pianeta è sconvolto da repentini cambiamenti climatici e gli Stati Uniti sono bloccati nel ghiaccio perenne di una improvvisa glaciazione. I sopravvissuti cercano rifugio a Sud ed arrivano alla borda, la famigerata muraglia metallica che divide gli Stati Uniti dal Messico.

Chi ha un minimo di conoscenza di cosa rappresenti quella frontiera in termini di vittime e sofferenze, può immaginare lo stupore nel vederla attraversare da disperati, a piedi, a migliaia di persone, in direzione Sud.
Il regista ha immaginato che il presidente americano, condonando il debito messicano, chiedesse e trovasse rifugio proprio in quel paese che quotidianamente, da molti anni, vede respinta alla frontiera la sua gente e quella di tutto il Sud America vanificando il sogno di una vita migliore.

Non sappiamo ancora bene cosa comporterà il cambiamento climatico di origine antropica, anche se autorevoli scienziati come il professor Walter Ganapini, parlano di rischio sopravvivenza per l’intera specie umana. Non sappiamo quindi se i “nostri” territori saranno tra quelli che ci
obbligheranno a fare le valigie. In occasione del convegno “Sulle spalle dei Giganti” nell’agosto 2017 ad Assisi, il Prof. Walter Ganapini – che non esito a definire uno dei padri, se non il padre dell’ambientalismo italiano – chiudeva il suo intervento con queste parole:

“La terra è un sistema finito, dotato di una capacità limitata di rigenerazione delle risorse e di assorbimento dei rifiuti, e un sano sviluppo della vita e dei sistemi sociali e di quelli ecologici è possibile solo conoscendo e rispettando i vincoli posti dall’ambiente naturale.
Forte è l’esigenza di soluzioni che coniughino necessità di sviluppo economico e conservazione degli ecosistemi per migliorare il tenore di vita dei più poveri, garantire la democrazia, assicurare alle generazioni future accesso alle risorse finite del pianeta: l’evidente stretta interdipendenza tra povertà e degrado ambientale sottolinea il bisogno di integrare tutela dell’ambiente e sviluppo economico e sociale, mentre la filosofia anti ecologica di Trump – che autorevoli osservatori definiscono “ambasciatore dell’abisso” – ci parla solo di orrida ed egoistica pulsione al “cupio dissolvi” da parte di pochi detentori di ricchezze fossili, pulsione che ci compete di rigettare, dando voce a chi non l’ha, per dare priorità al bene di tutti.”

Ecco, auguro al Presidente Trump ed ai suoi concittadini, (ma anche a Salvini e a noi italiani) di non avere mai necessità di oltrepassare in emergenza quel muro che con tanta costanza sta rinforzando, allungando ed aumentando in altezza.
La Politica non può ignorare questi temi per quanto possano essere difficili da comprendere e difficili
da accettare anche dalla pubblica opinione. Leggevo un’interessante riflessione di Grammenos Mastrojeni – che è obbligatorio leggere se si riflette su squilibrio ambientale e instabilità sociale – dove evidenziava che finito il clamore mediatico della COP 21 di Parigi nel 2015, poco si è scritto sulla stampa di COP 22 a Marrakech nel 2016 e ancora meno di COP 23 a Bonn nel 2017. Tralascio COP24 di Katovice dalla quale ci si aspettava moltissimo e non riesco ad essere ottimista su COP26 che si terrà a dicembre 2019 a Santiago del Cile, dopo la rinuncia del Brasile ad evento già assegnato.

Nella sua analisi, Mastrojeni rileva che nonostante questa indifferenza, nonostante l’ulteriore aumento della presenza di CO2 nell’aria che ha raggiunto le 406 parti per milione (ppm) di concentrazione contro le 400 del 2015, nonostante il mancato raggiungimento dell’accordo sulla
riduzione di 18 gigatonnellate di CO2 qualche passo avanti si è fatto.
Magari 406 parti per milione è un freddo numero che non dice molto… la scienza già dagli anni 90 spiegava che oltre le 400 ppm di CO2, il cambiamento climatico sarebbe diventato irreversibile… e così sembra essere oggi! Irreversibile, significa rischio di estinzione per la nostra specie. Il pianeta è
resiliente e va avanti lo stesso.
Intanto a Parigi si sono accordati per fare degli sforzi a seconda delle proprie possibilità. Li hanno chiamati Contributi Nazionali Volontari (Nationally Determined Contributions – NDCs). Il linguaggio dei testi ufficiali non è cambiato, ma a Bonn oltre a discutere della riduzione dei combustibili fossili, ci si è iniziato a chiedere come sia possibile che “le comunità e i territori reali – famiglie, villaggi, isole, città, mari, fattorie, ecc. – possano concorrere a un’economia decarbonizzata e trarne un’opportunità di giustizia e modernizzazione”

Fino a Parigi, si parlava sostanzialmente solo di energia, guardando quasi esclusivamente al rapporto tra il clima e gli obiettivi dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2030. Con Marrakech si erano introdotte delle “giornate d’azione” dove il clima era messo in relazione con temi di sviluppo quali
cibo, acqua, uguaglianza di genere eccetera.
In Marocco era iniziato un cambio di paradigma che ha portato un mutamento di mentalità in negoziati concettualmente fermi da vent’anni.
A Bonn, accanto alla necessaria coalizione per superare il carbone, si sono imposti temi come il ruolo dell’agricoltura, quello delle popolazioni indigene o quello del ruolo della donna.

A Bonn la Germania ha finanziato per 50 milioni di Euro un Fondo per l’Adattamento che ha ricevuto anche un contributo italiano di 7 milioni. Il nostro paese ha inoltre avviato delle azioni per sostenere il capacity- building dei paesi più poveri. I soldi sono importanti ma non sono tutto.
Gianni Silvestrini, nel suo libro “2 °C, Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia” ci ricorda che oltre alla motivazione ambientale, per il rischio di cambiamenti climatici pericolosi e irreversibili, c’è, una seconda motivazione che dovrebbe spingere ad attivarsi
velocemente: quella economica. “Più si ritarda il contenimento delle emissioni climalteranti, maggiori saranno i danni. (…) Se alla fine del secolo la crescita della temperatura dell’atmosfera passasse da 2 a 3°C si generebbero impatti annui aggiuntivi pari allo 0,9% del pil mondiale. (…) Per ogni decennio di ritardo i costi tenderebbero infatti ad aumentare del 40%. (…) i prossimi 10-15 anni saranno decisivi nella lotta al cambiamento climatico”

Sempre ammesso che quel tempo sia ancora a nostra disposizone.

Quindi la Finanza ha un suo ruolo da giocare, ma è solo una parte della storia; Mastrojeni ritiene che sia la parte meno significativa; io al contrario, ritengo che la finanza non possa tirarsi indietro. Quale socio di Banca Etica, ho seguito con attenzione la campagna di lobbying verso i parlamentari europei per l’approvazione della definizione di Finanza Sostenibile. Risultato raggiunto solo parzialmente ma è un bel passo avanti.

Per essere definita Finanza Sostenibile, dovrà escludere qualunque tipo di investimento che coinvolga le industrie estrattive di carbone e petrolio e l’industria dell’energia nucleare. Un investimento che voglia definirsi sostenibile dovrà essere fatto su aziende che rispettino le convenzioni ONU e OCSE sulla tutela dei diritti umani dei lavoratori.
Il Parlamento Europeo non ha avuto coraggio a sufficienza ed ha rinviato al 2021 l’adozione di una definizione di cosa sarà considerato “non sostenibile”.
Banca Etica, coi suoi 60.000 soci in Italia e Spagna, avrebbe voluto che degli investimenti venissero misurati non solo gli impatti ambientali ma anche quelli sociali; questo emendamento è stato cassato.

Tornando a COP 23, a Bonn è stato approvato il Gender Action Plan, che mira a valorizzare il ruolo delle donne nelle azioni di mitigazione ed adattamento. La donna come fondamentale fattore di Resilienza! Oltre la finanza, il varo della “Piattaforma sull’azione climatica dei popoli indigeni e delle comunità locali” ci mostra il vero cambio di paradigma. È un fatto che siano le popolazioni indigene, che con le loro organizzazioni e stili di vita a basso impatto ambientale, ad essere colpite per prime sono colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici nei loro ecosistemi.
La politica prova a fare qualcosa, a volte… ma quelle poche volte la stampa non se ne accorge e quindi la popolazione non è al corrente, non è cosciente di quanto stia avvenendo. Lo dico anche in forma di autocritica, essendo uno dei fondatori della FIMA la Federazione Italiana dei Media Ambientali. COP21 per i media sarà ricordato come il momento della svolta, ma è in Marocco e Germania che il clima viene ridefinito come problematica di sviluppo equo e sostenibile, come un problema della specie umana, come questione di equilibrio dell’ecosistema prima che tematica produttiva, economica o addirittura finanziaria.

Nel frattempo però, sono già oltre 70 i conflitti bellici causati anche dai cambiamenti climatici. Avvengono nelle zone più povere del pianeta, nelle meno attrezzate a difendersi, e causano dei drammatici movimenti migratori. Nei Paesi in via di sviluppo, come avveniva anche qui nei secoli scorsi, può fare venire meno i mezzi di sostentamento ad interi villaggi, o regioni; se un popolo – grande o piccolo che sia – non ha i mezzi di sostentamento, si muove.
Ma parlare di esuli, migranti, profughi climatici, non rende bene l’idea di cosa significhi il totale sradicamento causato da forze esterne indipendenti dalla propria volontà… Lo fa bene invece Gabriele Martini che su La Stampa del 14/08/2016, racconta la tragedia delle popolazioni andine (Fra i migranti climatici di La Paz: “Le nostre Ande muoiono di sete”):

“«Coltivavamo quinoa e patate. Allevavamo lama. Poi è arrivata la grande siccità e la nostra vita è cambiata». Il mondo stravolto dai cambiamenti climatici ha la faccia cotta dal sole, le braccia nerborute e le mani callose di Nayra. Questa donna di 44 anni, nata e cresciuta a Tarata, un villaggio nel cuore delle Ande della Bolivia, è stata strappata dalla sua terra con il marito e i tre figli. Oggi vende snack e bibite su un rabberciato carretto in una strada di La Paz. «Abbiamo aspettato la pioggia per oltre un anno, poi ci siamo arresi e ce ne siamo andati. Qui mi sento straniera». «Il mio unico sogno – continua Nayra – è tornare a casa, ma so che non succederà». In Bolivia il cambiamento climatico non è una minaccia su un futuro remoto né una crociata
ambientalista. Nel Paese emblema dell’America Latina più povera il surriscaldamento globale è una drammatica realtà che ha già cambiato (in peggio) la vita delle famiglie. Centinaia, forse migliaia ogni mese: nessuna statistica conteggia i profughi climatici boliviani, costretti ad abbandonare le loro terre e a rifugiarsi nelle città. Vivono nelle baracche che spuntano nelle periferie di La Paz, Santa Cruz, Chocabamba. Un popolo di fantasmi. Eugenio è uno di loro: di giorno venditore ambulante, ogni sera torna nel suo tugurio a El Alto. Indaga l’orizzonte con occhi gonfi di nostalgia e rassegnazione: «Pachamama (Madre terra in lingua quechua, ndr.) ci dona la vita, ma ora si vendica  per tutto il male che l’uomo sta facendo».”

La quinoa che non cresce, l’ecatombe di pesce, l’allarme per le lagune, visitate ogni anno da migliaia di turisti, raccontano di vite che perdono ogni riferimento, ogni sicurezza e che devono mettersi in movimento resiliente per sopravvivere.
Si dice che la singola storia individuale, non faccia la Storia, quella con la S maiuscola. Al contrario io sono sempre più convinto che per comprendere i grandi sconvolgimenti, sia necessario guardare cosa è successo ai singoli.

Intanto noi continuiamo a parlare di radici territoriali, radici culturali, radici etniche… ma l’uomo non è una pianta, non ha radici… ha gambe! Più che Homo Sapiens, dovremmo parlare più correttamente di Homo Migrans.

Piccola digressione: è interessante come questi fenomeni vengano trasmessi alle generazioni successive: ricordo un giorno che in Germania, aiutavo mia nipote nella ripetizione della lezione di storia; il tema era qualcosa che mi suonava familiare, ma che non riuscivo ad identificare. La lezione
verteva sulle migrazioni dei popoli germanici. Alla fine compresi che quel tema, a suo tempo, lo avevo studiato anche io; solo che a me era stato presentato come invasioni barbariche. Il più volte citato Mastrojeni, ha scritto anche un libro con Antonello Pasini; il titolo è già eloquente:  Effetto Serra Effetto Guerra (2017, Chiarelettere). Vale la pena leggerne qualche passo:

“Il nostro impatto sull’ecosistema è stato soppesato con diversi approcci globali. Uno è quello dell’”impronta ecologica”, un indicatore utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della terra di rigenerarle: esso ci dice che a partire dalla metà degli anni Ottanta l’umanità sta vivendo in overshoot, ovvero al di sopra dei propri mezzi in termini ambientali, con una domanda annuale di risorse utilizzate al di sopra
di quanto la Terra riesca a rigenerare ogni anno.
Oggi l’umanità usa l’equivalente di 1,3 pianeti ogni anno e ciò significa che il pianeta ha bisogno di sedici mesi per rigenerare quello che usiamo in dodici
mesi. Se si trattasse di un’azienda o di una famiglia, si direbbe che si avvia alla bancarotta.”

Gli autori suggeriscono, semmai qualcuno avesse ancora dei dubbi, la necessità di analizzare il problema dell’immigrazione e dei conflitti dalla parte del clima. Ormai è accertato che i cambiamenti climatici influiscono sulle migrazioni e sono causa di crisi internazionali; altrettanto certo – nonostante qualche negazionista alla Trump – che il cambiamento climatico sia di origine antropica.
L’unica conclusione che è lecito trarre è che il nostro vivere al di sopra delle nostre possibilità e delle possibilità del nostro pianeta è la vera causa delle migrazioni forzate.

“Libertà di emigrare, non di fare emigrare” tuonava Scalabrini nel XIX secolo. Oggi ci ritroviamo ad essere noi, con i nostri stili di vita quelli che egli definiva “sensali di carne umana”… Forse è giunto il momento di prenderne atto e di assumersene le responsabilità, quantomeno accettandone le conseguenze.
Fonti delle Nazioni Unite parlano di un possibile esodo per cause ambientali di oltre 200 milioni di persone e l’aumento di conflitti per cause ambientali o per il controllo della risorsa idrica. Sono numeri che devono spingere i Governi, ma anche ogni singolo abitante del pianeta a fare la sua parte.
E le risposte non possono essere dei muri i quali ci privano dell’apporto economico e culturale della mobilità umana. “Più ponti meno muri” forse è più di uno slogan.
Un grande cantautore e filosofo argentino, Facundo Cabral, diceva: “Si los malos supieran que buen negocio es ser bueno, serían buenos aunque sea por negocio”.
Ecco, c’è necessità di agire… magari per interesse; ma dobbiamo agire subito! Qualche mese fa, dalla Colombia è arrivata una notizia che considero importantissima nella lotta alla deforestazione e al cambiamento climatico: la locale Corte Suprema di Giustizia ha sancito con una sentenza, che i beni naturali sono titolari di diritti come le persone e, di conseguenza, devono essere oggetto di protezione sia da parte del Governo che delle autorità locali.
Questa sentenza ha messo nero su bianco, che la distruzione di una foresta causa un danno immediato alla vita delle generazioni attuali – magari obbligandole ad iniziare dei percorsi migratori – ma anche a quelle future.

Detta Corte Suprema ha ritenuto che le autorità del Paese non stiano facendo abbastanza per contrastare la deforestazione e non stiano tenendo in conto gli effetti del cambiamento climatico. La Corte ha imposto alle autorità competenti di formulare entro quattro mesi, un piano d’azione a breve, medio e lungo termine, per contrastare il tasso di deforestazione in Amazzonia, alla qual viene riconosciuta l’importanza per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici.
Ma la sentenza non si ferma qui: viene ordinato al Governo Colombiano di formulare, entro cinque mesi, un patto intergenerazionale per la vita dell’Amazzonia colombiana, nel quale adottare misure volte ad azzerare sia le emissioni di gas climalteranti, che la deforestazione. Una sentenza che speriamo venga imitata anche altrove, soprattutto per l’evidenziazione del nesso di causalità tra salvaguardia ambientale e benessere delle popolazioni.

Nel dare questa notizia, il WWF Italia sottolinea come questa decisione dell’Alta Corte colombiana nasca a seguito di una richiesta di tutela da parte di 25 bambini e giovani tra i 7 e i 26 anni. Piccoli segni, ma significativi. Indicano che il cambiamento è possibile. Ce lo ricorda in modo autorevole anche Papa Francesco nella sua Lettera Enciclica “Laudato Si’”.

 

La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tuttala famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. (Francesco, Laudato si’, 13)

 

Da sempre la Chiesa ci esorta all’attenzione al Creato; si badi bene che anche l’aspetto semantico è stato mutato ed il concetto di “salvaguardia” è stato sostituito con quello di “Custodia” che presuppone la non proprietà da parte dell’essere umano.

E non è un caso che queste tematiche, prima nel campo di azione del Pontifico Consiglio Giustizia ePace, siano passate recentemente – come stabilito dal Motu Proprio “Humanam Progressionem”  – al neocostituito DICASTERO PER IL SERVIZIO DELLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE.

La lettera enciclica Laudato si’ di Papa Francesco sulla cura della casa comune propone una riflessione organica sulle relazioni che l’uomo intrattiene con il proprio ambiente vitale. Il Santo Padre parla di ecologia ambientale, economica e sociale, poiché ogni azione e interazione dell’uomo producono ricadute sia sui soggetti che sull’ambiente. Tale consapevolezza si traduce in “un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti” (Laudato si’, 14).

Un appello tanto stringente, rivolto agli uomini di ogni credo e convinzione, induce a prendere seriamente in considerazione le ripercussioni ambientali delle azioni dei singoli e delle collettività.
La riflessione deve quindi essere su diversi temi: come imprenditore, mi sento fortemente chiamato in causa dal Santo Padre quando scrive che

“Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare” (Francesco, Laudato sii, 22)

Da cittadino mi sento chiamato in causa perché:

Mentre l’ordine mondiale esistente si mostra impotente ad assumere responsabilità, l’istanza locale può fare la differenza. È lì infatti che possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra, come pure il pensare a quello che si lascia ai figli e ai nipoti. (Francesco, Laudato sii, 179)

Dobbiamo prendere coscienza che – come dice il celeberrimo detto dei nativi americani – abbiamo in prestito il pianeta dai nostri figli e a loro lo dobbiamo restituire in buone condizioni, migliore di quando i nostri padri lo hanno lasciato a noi.
Chiudo con le parole di Papa Francesco pronunciate proprio in questi giorni in occasione della sua visita in Marocco: Le migrazioni sono “un fenomeno che non troverà mai una soluzione nella costruzione di barriere, nella diffusione della paura dell’altro o nella negazione di assistenza a
quanti aspirano a un legittimo miglioramento per sé stessi e per le loro famiglie. Sappiamo anche che il consolidamento di una vera pace passa attraverso la ricerca della giustizia sociale, indispensabile per correggere gli squilibri economici e i disordini politici che sono sempre stati fattori principali di tensione e di minaccia per l’intera umanità.”

 

1. «Laudato si’, mi’ Signore », cantava san Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune
è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia:
«Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con
coloriti flori et herba».
2. Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio
ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La
violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo,
nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e
devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra (cfr Gen
2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua
ci vivifica e ristora.