Giuseppe Lanzi

Giuseppe Lanzi

Migrazioni e sviluppo sostenibile

Comunicare l’immigrazione”… mi ha colpito il titolo che campeggia sul programma di questa giornata. E mi ha colpito perché fino a pochi decenni fa, il verbo “migrare” era declinato solo come “emigrare”. Erano i nostri giovani che lasciavano il Paese per costruirsi un futuro accettabile.

Non parlo delle migrazioni bibliche del diciannovesimo secolo, dove regioni come il Veneto si svuotavano non essendo in grado di nutrire i propri cittadini. Vi sorprende che dica Veneto e non Calabria? Nonostante quello che racconta l’immaginario collettivo, è il profondo Nord Est italiano, che più ha contribuito alle grandi emigrazioni di massa.

Al primo convegno internazionale dei Missionari italiani in  emigrazione, tenutosi a Roma nel febbraio del 2005, Padre  Beniamino Rossi ricordava che

La prima fase di un flusso migratorio di massa è normalmente caratterizzato da situazioni di emergenza e, quindi, ha bisogno di interventi massicci nel campo dell’assistenza. Man mano che il flusso di stabilizza e le collettività migrati si organizzano, si passa ad una seconda fase, caratterizzata da processi di integrazione sociale ed economica. Nella storia dell’emigrazione italiana lo schema classico dell’assistenza per la prima fase migratoria ed il processo di integrazione nella seconda fase si è ripetuto più volte, visto che l’emigrazione italiana ha conosciuto una storia più che centenaria. in alcune nazioni di sono sovrapposte ondate migratorie italiane e quindi si sono stratificate le varie fasi:

purtroppo non sempre gli italiani “integrati” sono stati di supporto ai “nuovi” italiani in arrivo. Inoltre, questo schema ha presentato caratteristiche abbastanza differenziate a secondo delle epoche e dei Paesi di immigrazione. (…)

Quando, immediatamente a ridosso dell’unità d’Italia, durante gli anni ’70 del XIX secolo, è esploso il grande esodo di massa verso le Americhe, ci si è trovati davanti ad un’emigrazione decisamente sprovveduta, in balia degli agenti di emigrazione, spesso senza prospettive e sottoposta a sfruttamenti sistematici e degradanti.

Mons. Scalabrini nel suo opuscolo del 1887 (L’emigrazione  italiana in America, Osservazioni), riassumendo una serie di articoli e di documentazioni dell’epoca, scrive una pagina memorabile:

 

Stivati peggio di bestie, in numero assai maggiore di quello che permetterebbero i regolamenti e la capacità dei piroscafi,  essi fanno quel lungo e malagevole tragitto letteralmente ammucchiati, con quanto danno della morale e della salute ben  può ognuno immaginarlo. E quando arrivano a toccare il porto desiderato, la dolorosa  iliade de’ loro guai è tutt’altro che finita. Spesso raggirati da arti subdole, abbagliati da mille bugiarde promesse, costretti dal bisogno, si vincolano con contratti che sono una vera schiavitù, e  i fanciulli trovansi avviati coll’accattonaggio  sulla strada del delitto e le donne gettate nell’abisso del disonore. (…) Ma questi raggruppamenti se possono scemare i pericoli dell’emigrazione, rendendo meno triste e più sicura la vita, possono anche, se non sono ben diretti, essere causa di mali infiniti sia materiali sia morali. Poiché i nostri poveri contadini corrono pericolo d’essere avviati dagli speculatori a consumare la loro vita su terreni sterili e in luoghi malsani o mal difesi dalle  bestie feroci e dalle orde barbariche. Cose tutte coteste che già si verificarono più di una volta, e su cui la stampa e l’opinione pubblica ripetutamente si commossero.

 

Scalabrini riporta, tra le altre documentazioni, una proposta di legge alla Camera dei Rappresentanti di Washington che rivela le condizioni deplorevoli di sfruttamento di tanti immigrati soprattutto ragazzi e donne perfino da parte di padrini italiani.” Modificando un poco la prosa di Scalabrini, potrebbe essere la cronaca di quanto avviene oggi, in Italia, a migliaia di persone che arrivano nel nostro Paese.

Tralasciando le vicissitudini della alla generazione dei nostri padri o nonni, anche per la mia il tema del migrare è stato importante. Certo, le motivazioni erano cambiate, non era più forse una questione di sopravvivenza, forse si cercava “solo” di migliorare la propria posizione, ma le “migrazioni”, erano sempre dall’Italia verso l’estero. Io stesso per diversi sono stato un migrante economico tra Francia eGermania, dove ho potuto sperimentare anche le difficoltà del “diverso”. Poi mi sono trasformato in cooperatore internazionale, seguendo progetti di cooperazione allo sviluppo nei Balcani, in America Latina ed in Africa.

Ho potuto quindi vedere i flussi migratori da Est a Ovest che arrivavano in Germania, le migrazioni bibliche da Sud a Nord verso gli Stati Uniti d’America  e i flussi inversi dal centrafrica alla Repubblica Sudafricana. Verrebbe da dire “niente di nuovo sotto il sole”… tanto più che le statistiche indicano chiaramente che i giovani italiani hanno ricominciato ad emigrare.

Migranti economici”; oggi va quasi di moda aggiungere degli aggettivi; se hai quello giusto, riesci ad ottenere i documenti di soggiorno e puoi provare a costruirti una vita; se sei “solo” “migrante economico”, è quasi impossibile integrarsi, entri nel mondo oscuro dove, se hai fortuna trovi qualcuno che ti sfrutta con lavori e paghe da servi della gleba, se ti va male, sei carne da macello per la criminalità organizzata (o anche fai da te che può essere altrettanto feroce!).

Inoltre, tra le tante possibilità esistenti per ottenere lo status di “rifugiato”, non è ancora prevista quella di “rifugiato ambientale” o “rifugiato climatico”. Eppure, sempre più spesso sentiamo parlare di riscaldamento globale, di trasformazioni del clima, di innalzamento del livello dei mari… ma quali sono le conseguenze di queste trasformazioni? Difficilmente riusciamo a vedere tra queste, lo spostamento forzato di intere popolazioni che si ritrovano ad abitare in territori, non più adatti alla specie umana.

I dati non lasciano dubbi: oltre il 44% della popolazione mondiale vive entro 150 km dalle coste in aree che sempre più spesso, saranno colpite da fenomeni climatici estremi. L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (International Organization for Migration – IOM) propone questa definizione per i migranti ambientali:

 

persone o gruppi di persone che, per motivi imperativi di cambiamenti improvvisi o progressivi per l’ambiente che influenzano negativamente la loro vita o le condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali o scelgono di farlo, in maniera temporanea o definitiva, e che si spostano sia all’interno del loro paese sia uscendo dai confini del proprio paese”.

 

Stante questa definizione, sarebbe più proprio parlare di rifugiati ambientali. Ma tale definizione non è ancora unanimemente accettata e anche sulle cifre vi sono dati discordanti. Oggi abbiamo una chiara definizione di rifugiato politico o di migrante economico; su quelle si basa la possibilità di essere accolti o meno in paesi diversi dal proprio, con un minimo di riconoscimento o tutele; è fondamentale che si arrivi ad avere una definizione condivisa anche per i rifugiati ambientali.

Intere aree del Medio Oriente e del Nord Africa – ma il fenomeno coinvolge anche alcune regioni del Sud Italia – stanno subendo fenomeni di desertificazione diventando sempre più inabitabili per l’uomo. L’Europa, già oggi meta di flussi di rifugiati che scappano da guerre e persecuzioni, dovrà far fronte anche all’aumento importante del numero di rifugiati climatici che cercheranno riparo nei suoi territori… fino a che non toccherà anche a lei!

Nel film catastrofista L’alba del giorno dopo (The Day After Tomorrow,  2004) c’è una scena che, pur trattandosi di fiction, mi ha colpito molto: il pianeta è sconvolto da repentini cambiamenti climatici e gli Stati Uniti sono bloccati nel ghiaccio perenne di una improvvisa glaciazione. I sopravvissuti cercano rifugio a Sud ed arrivano alla borda, la famigerata muraglia metallica che divide gli Stati Uniti dal Messico.

Chi ha un minimo di conoscenza di cosa rappresenti quella frontiera in termini di vittime e sofferenze, può immaginare lo stupore nel vederla attraversare da disperati, a piedi, a migliaia di persone, in direzione Sud. Il regista ha immaginato che il presidente americano, condonando il debito messicano, chiedesse e trovasse rifugio proprio in quel paese che quotidianamente, da molti anni, vede respinta alla frontiera la sua gente e quella di tutto il Sud America vanificando il sogno di una vita migliore.

Non sappiamo ancora bene cosa comporterà il cambiamento climatico di origine antropica, anche se autorevoli scienziati come il professor Walter  Ganapini, parlano di rischio sopravvivenza per l’intera specie umana. Non sappiamo quindi se i “nostri” territori saranno tra quelli che ci obbligheranno a

fare le valigie. In occasione del convegno “Sulle spalle dei Giganti” nell’agosto 2017 ad Assisi, il Prof. Walter Ganapini – che non esito a definire uno dei padri, se non il padre dell’ambientalismo italiano – chiudeva il suo intervento con queste parole:

 

“La terra è un sistema finito, dotato di una capacità limitata  di rigenerazione delle risorse e di assorbimento dei rifiuti, e un  sano sviluppo della vita e dei sistemi sociali e di quelli ecologici è  possibile solo conoscendo e rispettando i vincoli posti  dall’ambiente naturale.

Forte è l’esigenza di soluzioni che coniughino necessità di sviluppo economico e conservazione degli ecosistemi per migliorare il tenore di vita dei più poveri, garantire la democrazia, assicurare alle generazioni future accesso alle risorse finite del pianeta: l’evidente stretta interdipendenza tra povertà e degrado ambientale sottolinea il bisogno di integrare tutela dell’ambiente e sviluppo economico e sociale, mentre la filosofia anti ecologica di Trump – che autorevoli osservatori definiscono “ambasciatore dell’abisso” – ci parla solo di orrida ed egoistica pulsione al “cupio dissolvi” da parte di pochi detentori di ricchezze fossili, pulsione che ci compete di rigettare, dando voce a chi non l’ha, per dare priorità al bene di tutti.”

 

Ecco, auguro al Presidente Trump ed ai suoi concittadini, di non avere mai necessità di oltrepassare in emergenza quel muro che con tanta costanza sta rinforzando, allungando ed aumentando in altezza. La Politica non può ignorare questi temi per quanto possano essere difficili da comprendere e difficili da accettare anche dalla pubblica opinione. Leggevo un’interessante riflessione di Grammenos Mastrojeni – autore che non può essere ignorato da chi cerca di riflettere su squilibrio ambientale e instabilità sociale – dove si evidenziava che finito il clamore mediatico della COP 21 di Parigi, poco si è scritto sulla stampa di COP 22 a Marrakech e ancora meno di COP 23 a Bonn.

Nella sua analisi, Mastrojeni rileva che nonostante questa indifferenza, nonostante l’ulteriore aumento della presenza di CO2 nell’aria che ha raggiunto le 406 parti per milione (ppm) di concentrazione contro le 400 del 2015, nonostante il mancato raggiungimento dell’accordo sulla riduzione di 18 gigatonnellate di CO2, qualche passo avanti si è fatto.

Magari 406 parti per milione è un freddo numero che non dice molto; la scienza già dagli anni 90 spiegava che oltre le 400 ppm di CO2, il cambiamento climatico sarebbe diventato irreversibile, e così sembra essere oggi! Irreversibile, significa rischio di estinzione per la nostra specie. Il pianetaè resiliente e va avanti lo stesso.

Intanto a Parigi si sono accordati per fare degli sforzi a seconda delle proprie possibilità. Li hanno chiamati Contributi Nazionali Volontari  (Nationally Determined Contributions – NDCs). Il linguaggio dei testi ufficiali non è cambiato, ma a Bonn oltre a discutere della riduzione dei combustibili fossili, ci si è iniziato a chiedere come sia possibile che “le comunità e i territori reali – famiglie, villaggi, isole, città, mari,  fattorie, ecc. – possano concorrere a un’economia decarbonizzata e trarne un’opportunità di giustizia e modernizzazione”.Fino a Parigi, si parlava sostanzialmente solo di energia, guardando quasi esclusivamente al rapporto tra il clima e gli obiettivi dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2030. Con Marrakech si erano introdotte delle “giornate  d’azione” dove il clima era messo in relazione con temi di sviluppo quali cibo, acqua, uguaglianza di genere eccetera.

In Marocco era iniziato un cambio di paradigma che ha portato un mutamento di mentalità in negoziati concettualmente fermi da vent’anni. A Bonn, accanto alla necessaria coalizione per superare il carbone, si sono imposti temi come il ruolo dell’agricoltura, quello delle popolazioni indigene o quello del ruolo della donna.

A Bonn la Germania ha finanziato per 50 milioni di Euro un Fondo per l’Adattamento che ha ricevuto anche un contributo italiano di 7 milioni. Ilnostro paese ha inoltre avviato delle azioni per sostenere il capacity- building dei paesi più poveri. I soldi sono importanti ma non sono tutto.

Gianni Silvestrini, nel suo libro “2 °C, Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia” (2015, Edizioni Ambiente) ci ricorda che oltre alla motivazione ambientale, per il rischio di cambiamenti climatici pericolosi e irreversibili, c’è, una seconda motivazione che dovrebbe spingere ad attivarsi velocemente: quella economica.

 

Più si ritarda il contenimento delle emissioni climalteranti, maggiori saranno i danni. (…) Se  alla fine del secolo la crescita della temperatura dell’atmosfera passasse da 2 a  3°C si generebbero impatti annui aggiuntivi pari allo 0,9% del pil mondiale.  (…) Per ogni decennio di ritardo i costi tenderebbero infatti ad aumentare del 40%. (…) i prossimi 10-15 anni saranno decisivi nella lotta al cambiamento climatico

 

Sempre ammesso che quel tempo sia ancora a nostra disposizione. È quindi vero che la Finanza abbia un suo ruolo da giocare, ma è solo unaparte della storia; Mastrojeni dice che è la parte meno significativa. A Bonn è stato approvato il Gender Action Plan, che mira a valorizzare il ruolo delle donne nelle azioni di mitigazione ed adattamento. La donna come fondamentale fattore di Resilienza! Oltre la finanza, il varo della “Piattaforma sull’azione climatica dei popoli indigeni e delle comunità locali” ci mostra il vero cambio di paradigma. È un fatto che siano le popolazioni indigene, che con le loro organizzazioni e stili di vita a basso impatto ambientale, ad essere colpite per prime sono colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici nei loro ecosistemi.

La politica prova a fare qualcosa, a volte; ma quelle poche volte la stampa non se ne accorge e quindi la popolazione non è al corrente, non è cosciente di quanto stia avvenendo. Lo dico anche in forma di autocritica, essendo uno dei fondatori della FIMA la Federazione Italiana dei Media  Ambientali.COP21 per i media sarà ricordato come il momento della svolta, ma è in Marocco e Germania che il clima viene ridefinito come problematica di sviluppo equo e sostenibile, come un problema della specie umana, come questione di equilibrio dell’ecosistema prima che tematica produttiva, economica o addirittura finanziaria.

Nel frattempo però, sono già oltre 70 i conflitti bellici causati anche dai cambiamenti climatici. Avvengono nelle zone più povere del pianeta, nelle meno attrezzate a difendersi, e causano dei drammatici movimenti migratori. Nei Paesi in via di sviluppo, come avveniva anche qui nei secoli scorsi, può fare venire meno i mezzi di sostentamento ad interi villaggi, o regioni; se un popolo – grande o piccolo che sia – non ha i mezzi di sostentamento, si muove.

Ma parlare di esuli, migranti, profughi climatici, non rende bene l’idea di cosa significhi il totale sradicamento causato da forze esterne indipendenti dalla propria volontà… Lo fa bene invece Gabriele Martini che su La Stampa racconta la tragedia delle popolazioni andine (Fra i migranti climatici di La Paz:  “Le nostre Ande muoiono di sete”):

 

«Coltivavamo quinoa e patate. Allevavamo lama. Poi è arrivata la  grande siccità e la nostra vita è cambiata». Il mondo stravolto dai cambiamenti  climatici ha la faccia cotta dal sole, le braccia nerborute e le mani callose di  Nayra. Questa donna di 44 anni, nata e cresciuta a Tarata, un villaggio nel  cuore delle Ande della Bolivia, è stata strappata dalla sua terra con il marito e i  tre figli. Oggi vende snack e bibite su un rabberciato carretto in una strada di  La Paz. «Abbiamo aspettato la pioggia per oltre un anno, poi ci siamo arresi e  ce ne siamo andati. Qui mi sento straniera». «Il mio unico sogno – continua  Nayra – è tornare a casa, ma so che non succederà».  In Bolivia il cambiamento climatico non è una minaccia su un futuro remoto né una crociata ambientalista. Nel Paese emblema dell’America Latina  più povera il surriscaldamento globale è una drammatica realtà che ha già  cambiato (in peggio) la vita delle famiglie. Centinaia, forse migliaia ogni mese:  nessuna statistica conteggia i profughi climatici boliviani, costretti ad  abbandonare le loro terre e a rifugiarsi nelle città. Vivono nelle baracche che  spuntano nelle periferie di La Paz, Santa Cruz, Chocabamba. Un popolo di  fantasmi. Eugenio è uno di loro: di giorno venditore ambulante, ogni sera torna  nel suo tugurio a El Alto. Indaga l’orizzonte con occhi gonfi di nostalgia e  rassegnazione: «Pachamama (Madre terra in lingua quechua, ndr.) ci dona la  vita, ma ora si vendica per tutto il male che l’uomo sta facendo».

 

La quinoa che non cresce, l’ecatombe di pesce, l’allarme per le lagune, visitate ogni anno da migliaia di turisti, raccontano di vite che perdono ogni riferimento, ogni sicurezza e che devono mettersi in movimento resiliente per sopravvivere.Si dice che la singola storia individuale, non faccia la Storia, quella con la S maiuscola. Al contrario io sono sempre più convinto che per comprendere i grandi sconvolgimenti, sia necessario guardare cosa è successo ai singoli.

Intanto noi continuiamo a parlare di radici territoriali, radici  culturali, radici etniche… ma l’uomo non è una pianta, non ha radici… hagambe! Più che Homo Sapiens, dovremmo parlare più correttamente di Homo  Migrans. Piccola digressione: è interessante come questi fenomeni vengano trasmessi alle generazioni successive: ricordo un giorno che in Germania, aiutavo mia nipote nella ripetizione della lezione di storia; il tema era qualcosa che mi suonava familiare, ma che non riuscivo ad identificare. La lezione verteva sulle migrazioni dei popoli germanici. Alla fine compresi che quel tema, a suo tempo, lo avevo studiato anche io; solo che a me era stato presentato come invasioni barbariche.

Il più volte citato Mastrojeni, ha scritto anche un libro con Antonello Pasini; il titolo è già eloquente: Effetto Serra Effetto Guerra (2017, Chiarelettere). Vale la pena leggerne qualche passo:

 

Il nostro impatto sull’ecosistema è stato soppesato con diversi approcci globali. Uno è quello dell’”impronta ecologica”, un indicatore utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della terra di rigenerarle: esso ci dice che a partire dalla metà degli anni Ottanta l’umanità sta vivendo in overshoot, ovvero al di sopra dei propri mezzi in termini ambientali, con una domanda annuale di risorse utilizzate al di sopra di quanto la Terra riesca a rigenerare ogni anno. Oggi l’umanità usa l’equivalente di 1,3 pianeti ogni anno e ciò significa che il pianeta ha bisogno di sedici mesi per rigenerare quello che usiamo in dodici mesi. Se si trattasse di un’azienda o di una famiglia, si direbbe che si avvia alla bancarotta.”

 

Gli autori suggeriscono, semmai qualcuno avesse ancora dei dubbi, la necessità di analizzare il problema dell’immigrazione e dei conflitti dalla partedel clima. Ormai è accertato che i cambiamenti climatici influiscono sulle migrazioni e sono causa di crisi internazionali; altrettanto certo – nonostante qualche negazionista alla Trump – che il cambiamento climatico sia di origine antropica. L’unica conclusione che è lecito trarre è che il nostro vivere al di sopra delle nostre possibilità e delle possibilità del nostro pianeta è la vera causa delle migrazioni forzate.“Libertà di emigrare, non di fare emigrare” tuonava Scalabrini nel XIX secolo. Oggi ci ritroviamo ad essere noi, con i nostri stili di vita quelli che egli definiva “sensali di carne umana”… Forse è giunto il momento di prenderne atto e di assumersene le responsabilità, quantomeno accettandone le conseguenze.

Fonti delle Nazioni Unite parlano di un possibile esodo per cause ambientali di oltre 200 milioni di persone e l’aumento di conflitti per cause ambientali o per il controllo della risorsa idrica. Sono numeri che devonospingere i Governi, ma anche ogni singolo abitante del pianeta a fare la sua parte.

E le risposte non possono essere dei muri i quali ci privano dell’apporto economico e culturale della mobilità umana. “Più ponti meno muri” forse è più di uno slogan. Un grande cantautore e filosofo argentino, Facundo Cabral, diceva: “Si  los malos supieran que buen negocio es ser bueno, serían buenos aunque sea por negocio”.

Ecco, c’è necessità di agire… magari per interesse; ma dobbiamo agire subito!

Qualche giorno fa, dalla Colombia è arrivata una notizia che considero importantissima nella lotta alla deforestazione e al cambiamento climatico: la locale Corte Suprema di Giustizia ha sancito con una sentenza, che i beni naturali sono titolari di diritti come le persone e, di conseguenza, devono essere oggetto di protezione sia da parte del Governo che delle autorità locali. Questa sentenza ha messo nero su bianco, che la distruzione di una foresta causa un danno immediato alla vita delle generazioni attuali – magari obbligandole ad iniziare dei percorsi migratori – ma anche a quelle future. Detta Corte Suprema ha ritenuto che le autorità del Paese non stiano abbastanza per contrastare la deforestazione e non stiano tenendo in conto gli effetti del cambiamento climatico.

La Corte ha imposto alle autorità competenti di formulare entro quattro mesi, un piano d’azione a breve, medio e lungo termine, per contrastare il tasso di deforestazione in Amazzonia, alla qual viene riconosciuta l’importanza per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici.

Ma la sentenza non si ferma qui: viene ordinato al Governo Colombiano di formulare, entro cinque mesi, un patto intergenerazionale per la vita  dell’Amazzonia colombiana, nel quale adottare misure volte ad azzerare sia le emissioni di gas climalteranti, che la deforestazione.Una sentenza che speriamo venga imitata anche altrove, soprattutto per l’evidenziazione del nesso di causalità tra salvaguardia ambientale e benessere delle popolazioni.

Nel dare questa notizia, il WWF Italia sottolinea come questa decisione dell’Alta Corte colombiana nasca a seguito di una richiesta di tutela da parte di 25 bambini e giovani tra i 7 e i 26 anni. Piccoli segni, ma significativi. Indicano che il cambiamento è possibile. Celo ricorda in modo autorevole anche Papa Francesco nella sua Lettera Enciclica “Laudato Si’”.

 

La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. (Francesco, Laudato si’, 13)

 

Da sempre la Chiesa ci esorta all’attenzione al Creato; si badi bene che anche l’aspetto semantico è stato mutato ed il concetto di “salvaguardia” èstato sostituito con quello di “Custodia” che presuppone la non proprietà da parte dell’essere umano. E non è un caso che queste tematiche, prima nel campo di azione del Pontifico Consiglio Giustizia e Pace, siano passate dallo scorso anno – come stabilito dal Motu Proprio “Humanam Progressionem” – al nascente DICASTERO PER IL SERVIZIO DELLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE.

La lettera enciclica Laudato si’ di Papa Francesco sulla cura della casa comune propone una riflessione organica sulle relazioni che l’uomo intrattienecon il proprio ambiente vitale. Il Santo Padre parla di ecologia ambientale, economica e sociale, poiché ogni azione e interazione dell’uomo producono ricadute sia sui soggetti che sull’ambiente. Tale consapevolezza si traduce in“un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti” (Laudato si’, 14).

Un appello tanto stringente, rivolto agli uomini di ogni credo e convinzione, induce a prendere seriamente in considerazione le ripercussioni ambientali delle azioni dei singoli e delle collettività. In questo orizzonte, è assai opportuno riflettere sull’impatto ambientale legato alla celebrazione degli eventi ecclesiali.

La riflessione deve quindi essere su diversi temi: come imprenditore, mi sento fortemente chiamato in causa dal Santo Padre quando scrive che “Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare” (Francesco, Laudato sii, 22)

Da cittadino mi sento chiamato in causa perché: Mentre l’ordine mondiale esistente si mostra impotente ad assumere  responsabilità, l’istanza locale può fare la differenza. È lì infatti che possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra, come pure il pensare a quello che si lascia ai figli e ai nipoti.

(Francesco, Laudato sii, 179)

Dobbiamo prendere coscienza che – come dice il celeberrimo detto dei nativi americani – abbiamo in prestito il pianeta dai nostri figli e a loro lo dobbiamo restituire in buone condizioni, migliore di quando i nostri padri lo hanno lasciato a noi.